Roberto Rivera
All’alba degli anni ’80, un pomeriggio di un caldo settembre, entrai coi miei genitori all’EFESO Club per essere iscritto ad un corso di Judo. Mentre avveniva la consueta cerimonia delle firme e dei contanti curiosai in fondo alla palestra dove, nel retro di una specie di paravento, su un tatami di legno chiaro, si stava allenando un ragazzo dal fisico statuario, capelli biondi ben pettinati e torso nudo nei bianchi pantaloni del karate-gi, eseguendo quello che, qualche anno dopo, riconobbi come Kanku-Dai. Era il M° Ferdinando Balzarro ed io volevo imparare con tutto me stesso quello che stava praticando lui. Ero un bambino educato e bravo a scuola, ma spesso rissoso al limite del caratteriale e per giunta |
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Presto sono una delle prime 100 cinture nere del Maestro. Gli anni passano in allenamenti che pian piano diventano addestramenti alla fatica, alle competizioni nazionali ed alla relativa pressione psicologica, al sacrificio e soprattutto alla ricerca Sono gli anni del “dolore”, durante i quali noi ragazzi volevamo essere forti come quei combattenti Ma il Karate, al di là di ogni Kumite o di qualunque Kata, stava diventando sempre di più innamorarsi dei dettagli: una sorta di mantra che sembrava ripetersi quasi come un’intima preghiera: dentro le mura della palestra, ma sempre di più anche fuori, nella vita di tutti i giorni. Poi, non ancora laureato poco più che ventenne, lascio la mia città, i miei amici, il mio grande amore e inizio a lavorare in banca. All’estero per diversi anni continuo la pratica con discontinuità, ma sempre almeno su base settimanale. Mi disinteresso dello studio vero e proprio, degli esami per il passaggio di Dan, degli stage che frequento ormai di rado. Il peso aumenta fino a sfiorare i 100 Kg. Mi laureo in economia, continuo a studiare all’INSEAD di Fontainebleau in Francia, ottengo una cattedra all’Università di Bologna, ma il mio driver è sempre il Karate. Successi ed insuccessi si alternano come per tutti nell’ambito del lavoro, ma il Karate non è neanche classificabile: esso esiste nella mia vita. Punto. Nel 2005, dopo anche un breve periodo di pratica di Iaido, la scelta definitiva. Lavorare per arrivare a dedicare sempre più tempo ed energie allo studio del Karate e alla sua pratica lungo Via (il Do, appunto). L’importanza della pratica quotidiana diventa come mangiare e bere: qualcosa che si fa al di là del vero desiderio, qualcosa cui attribuire un’importanza vitale e a cui rendere tributo per quel contenuto quasi mistico, trasferito ormai in qualunque aspetto della quotidianità. Il “dolore” lo si trova in tanti aspetti che vanno dalle sveglie continue a notte fonda per raggiungere i luoghi dell’allenamento, alle giunture logore per gli esercizi di miglioramento dell’elasticità delle caviglie, alla disperazione di una tecnica della quale non si vedono neanche minimi miglioramenti, ai dolori alle spalle per i troppi pugni sferrati o ai dolori alle mani causati dal Makiwara. Ma la cultura da cui proviene il Karate è una cultura di preparazione al dolore e alla morte e La ripetizione quotidiana degli stessi Kata, delle stesse tecniche, gli stessi rituali, il saluto seduti, Come si fa a spiegare che, pur praticando ogni giorno, si rischia di assistere per anni ad alcun “Possano essere anche duemila, io vado” (M° Taji Kase). |